La crisi delle vocazioni alla vita consacrata

Calo numerico delle vocazioni alla vita consacrata
Alle radici della crisi attuale


Basta un rapido colpo d’occhio in occasione dei raduni ecclesiali per rendersi conto della riduzione numerica dei religiosi e delle religiose. Un anno dopo l’altro la loro diminuzione numerica appare sempre più accentuata. È la crisi della vita consacrata. Una crisi irrimediabile?
Un dato ci dà un’idea della gravità della crisi in Italia: nel periodo 2001-2011 i religiosi sono diminuiti del 14% e le religiose del 19%. Aggiungiamo che le nuove vocazioni non bastano a coprire i vuoti dovuti alla mortalità degli anziani o all’abbandono di quelli che lasciano gli istituti.


Sanluri: Chiostro del convento dei Cappuccini.
Come interpretare il fenomeno? La crisi è complessa. Il primo elemento da prendere inconsiderazione è il calo demografico: le famiglie hanno meno figli e lo Stato realizza un percorso pubblico di formazione scolastica. Di qui la minor propensione a considerare la consacrazione religiosa come una possibile scelta di vita e il diminuito interesse a utilizzare i seminari o le scuole apostoliche come canale formativo. Ne viene quindi una diffusa diminuzione dei potenziali candidati all’interno dei quali poi si realizzava il discernimento vocazionale.

Un secondo fattore che influisce sulla disponibilità a riconoscere ed accogliere una vocazione al servizio e alla testimonianza evangelica in ambito ecclesiale è l’affermarsi di una visione secolarizzata dell’esistenza. In una società che elabora le proprie istituzioni “come se Dio non ci fosse” la religione diviene opzione certamente legittima, ma personale. Perciò la Chiesa e le istituzioni che in essa operano si trovano di fronte non a un rifiuto ostile, ma piuttosto a un’indiretta messa in discussione della loro legittimità.

Inoltre la Chiesa è percepita anzitutto come istituzione, conosciuta o attraverso i mass media o per esperienza diretta; debole, se non assente, è la comprensione della dimensione sacramentale, misterica, spirituale.

Diversa invece la disponibilità a prendere in considerazione la vocazione come testimonianza di carità, impegno di solidale condivisone della povertà, attiva partecipazione a iniziative di promozione sociale. È il riconoscimento del volto positivo della dimensione istituzionale della Chiesa, apprezzamento per la utilità e bontà sociale dei servizi che essa offre.

A delineare l’attuale fisionomia della questione vocazione vi è infine anche una serie di cambiamenti interni al campo ecclesiale. A partire dal Concilio Vaticano II si ha un progressivo dilatarsi della prospettiva di consacrazione: «Tutti i fedeli cristiani, di qualsiasi stato o ordine, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità» (Lumen gentium 40). Si ha così una pluralità di “vocazioni”, tutte in se stesse autentica sequela del Signore, pur nella diversità delle opzioni possibili.

Un panorama che potrebbe ulteriormente allargarsi se si ponesse attenzione anche alle scelte di vita, intese come totalità ed esclusività dell’impegno, proposte dai movimenti ecclesiali, strutture assai flessibili dal punto di vista organizzativo e nello stesso tempo caratterizzate da una forte identità spirituale e di appartenenza. Manca un’attendibile documentazione, in particolare quantitativa, sulle nuove forme ed esperienze vocazionali e quindi non è possibile delineare né raffronti né un quadro significativo delle tendenze in atto. Ci si potrebbe tuttavia attendere una maggiore disponibilità a riflettere sull’ipotesi di vocazione in quei giovani che vivono il loro essere cattolici nella consapevolezza che la fede va congiunta alla coerenza della testimonianza. Sono quanti non si limitano ad una regolare pratica del precetto festivo, ma coltivano una frequente preghiera, partecipano alle attività della comunità parrocchiale, o del movimento ecclesiale cui si riferiscono, e hanno un atteggiamento di ascolto e accoglienza del magistero.
Spesso alle spalle di una vocazione troviamo una famiglia che si è attivamente coinvolta nella formazione religiosa dei propri membri e una realtà parrocchiale che ne ha sostenuto e rafforzato l’impegno educativo. Dal punto di vista numerico sono una minoranza, indicativamente intorno al 10% di coloro che si dichiarano cristiani, ma proprio l’impegno che pongono a ridurre la distanza tra adesione di fede e comportamento (rituale – etico – relazionale) fa di essi una risorsa qualitativamente molto importante per la presenza ecclesiale. Potremmo dire che essi sono “i vicini”, quelli che ordinariamente incontriamo negli oratori e nei gruppi giovanili. 
Nella realtà esistenziale dei giovani, anche di quelli «vicini» e partecipi dell’ambiente ecclesiale, c’è poco spazio per una ipotesi di vocazione presbiterale e/o religiosa. Dietro c’è una rappresentazione della scelta vocazionale nella quale gli ostacoli sono di gran lunga superiori alle ricadute positive. Fa difficoltà anzitutto il non potersi sposare (62%) poi viene il venirsi a trovare in condizioni esistenziali caratterizzate da solitudine relazionale (46%) e la definitività (46%) della scelta. C’è una evidente ritrosia a riconoscersi in un’ipotesi vocazionale “classica”, mentre se si pensa ad una partecipazione ecclesiale la si ipotizza piuttosto nel volontariato, nella flessibilità dell’impegno, nella reversibilità delle scelte, limitando al massimo lacci e laccioli giuridici e vincoli istituzionali. È all’interno di questa realtà sociale, culturale ed ecclesiale dalle molte sfaccettature che vanno posti gli interrogativi sull’andamento delle vocazioni al sacerdozio, alla vita consacrata. La “crisi” non sta, almeno al momento attuale, nella assenza di vocazioni anche se negli ultimi anni si coglie la dinamica verso un ulteriore calo, il vero nodo che sta davanti alla Chiesa è la pratica impossibilità di mantenere l’odierna modalità di presenza sul territorio. Questo perché le vocazioni sono numericamente inadeguate a garantire il ricambio generazionale.
La vocazione religiosa o presbiterale oggi ha perso molto dello appeal non solo sociale, ma anche spirituale che aveva in passato. Questo lo si riscontra anzitutto nelle famiglie che non sognano per i figli una “professione” ecclesiastica e quando si trovano a confrontarsi con la scelta vocazionale finiscono sì con l’accettarla (o subirla?), ma raramente la accompagnano con incoraggiamento, appoggio, solidale condivisione. Di qui quella “insufficienza” vocazionale che si allarga anno dopo anno e solo parzialmente potrà essere compensata incrementando l’accoglienza di ecclesiastici che vengono dall’estero.
Neppure in Sardegna la vita consacrata gode di salute migliore, rispetto al resto dell’Italia. Più volte nel recente passato sono stati pubblicati numeri e valutazioni. Mario Girau qualche anno fa (2009) ne ha scritto su La Nuova Sardegna: “La crisi di vocazioni, molto sentita in alcune congregazioni maschili e femminili, ha assottigliato i ranghi e bloccato il turnover nei monasteri dove l'età media comincia a diventare alta”. L’articolo si riferiva soprattutto alle religiose della Diocesi di Cagliari, dove all’epoca il numero delle suore oscillava intorno al migliaio. Ma l’ultima statistica (2016) fornita dall’USMI indica dei numeri decisamente inferiori. Nella diocesi di Cagliari le suore sono oggi 550, in quella di Sassari 179, in quella di Oristano 257, a Tempio 61, a Ozieri 18, ad Alghero 141, a Lanusei 10, ad Ales 83, a Nuoro 56, a Iglesias 30. Esse sono distribuite nelle comunità locali, che sono 103 a Cagliari, 25 a Sassari, 44 a Oristano, 21 a Tempio, 8 a Ozieri, 19 ad Alghero, 3 a Lanusei, 16 ad Ales, 20 a Nuoro e 12 a Iglesias. Nel frattempo sono state chiuse 8 case a Cagliari, 2 a Sassari, 3 a Lanusei, 8 a Nuoro e 1 a Iglesias. Inoltre si fa rilevare che l’età media delle religiose in tutte le congregazioni presenti in Sardegna varia tra 60/70 anni.
Non abbiamo invece statistiche aggiornate circa gli istituti maschili, ma sappiamo che la crisi li ha investiti non meno gravemente di quelli femminili. Nelle 10 diocesi sarde sono presenti, a diverso, titolo 243 religiosi (nel 2014 erano 304). Diverse case religiose sono state chiuse, ma non abbiamo dati precisi.

Le famiglie più numerose (francescani minori e conventuali) hanno subito un ridimensionamento sensibile che li ha portati a chiudere diverse case e presenze e a invocare il sostegno di religiosi provenienti dal Continente.
I Salesiani registrano anch’essi lo stesso fenomeno della riduzione numerica del personale e conseguentemente la chiusura di diverse case.
I Cappuccini sono in condizioni migliori: al momento riescono a non risentire della crisi generale, grazie ai giovani che costantemente (anche senza esagerarne il numero) fanno il loro ingresso in convento.

Davanti a questa situazione, che suscita nostalgia del tempo che fu, rammarico per la dolorosa situazione presente e apprensione per il futuro, ci si interroga su quale destino attende la vita consacrata in Sardegna e cosa fare per arginare la crisi.
A mio avviso, in primo luogo occorre ripensare le presenze delle case religiose nell’Isola, come già si è fatto e si sta facendo da parte di diversi istituti. Ma aggiungerei alcune riflessioni sulla stessa vita consacrata.
1) Il problema vocazionale, a mio avviso, non può essere slegato dalla “cura animarum”. Sono i pastori che devono prendersi cura in primo luogo, e prima di ogni altra attività, della cura delle anime dei loro fedeli: non una cura generica, ma intensiva. La loro azione pastorale deve tendere a illustrare e far apprezzare la vocazione alla vita consacrata (in tutte le sue forme).
2) La “cura animarum” comporta che si accompagnino i fedeli nella vita spirituale, curandone la formazione religiosa e la crescita nella fede, insegnando loro la preghiera e spronandoli alla vita sacramentale, in particolare all’assiduità alla confessione frequente.
3) È necessario che le chiese, soprattutto quelle dei religiosi, siano aperte tutti i giorni per accogliere i fedeli che desiderano accedere ai sacramenti o per offrire a chi lo richieda l’opportunità di incontrare il sacerdote.
4) Ogni istituto religioso ha la sua storia, il suo carisma e la sua missione specifica: è opportuno che ne diffonda la conoscenza e ne dia testimonianza con scelte di vita coerenti.
5) “La Chiesa cresce per attrazione non per proselitismo” disse papa Benedetto XVI e l’ha ripetuto anche Papa Francesco. La stessa cosa si potrebbe dire delle vocazioni alla vita consacrata: le vocazioni crescono per attrazione. I “chiamati” devono saper attrarre con la loro vita e la loro testimonianza.
6) È importante far conoscere la bellezza della vocazione alla vita consacrata dando spazio alle testimonianze dei consacrati, chiamati a narrare, con semplicità e senza retorica, quanto il Signore ha operato in loro.
7) Ritengo che sia opportuno che in ogni comunità religiosa ci sia un incaricato col compito specifico di accostare i giovani per ascoltarli, illuminarli e guidarli nella ricerca di Dio e incoraggiarli alla sua sequela. È necessario infine accompagnare i giovani nel discernimento della propria vocazione, nel rispetto della loro libertà decisionale.
8) Perché le nostre comunità religiose continuino ad attrarre i giovani è necessario migliorare la qualità della vita al suo interno. Occorre preservarne il clima di preghiera e di raccoglimento e, nel contempo, siano luoghi di accoglienza fraterna e gioiosa per quanti bussano alla porta.
Sono questi solo alcuni suggerimenti di carattere generale da tenere presenti quando si affronta il problema vocazionale. Davanti alla crisi attuale, è del tutto inutile piangersi addosso, anche perché non servirebbe a nulla. 









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