San Leopoldo Mandić, patrono dei malati di tumore
di P. Tarcisio M. Mascia
Roma – In
occasione della 72a Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, svoltasi in Vaticano
dal 12 al 15 novembre scorso - in occasione della quale si è parlato
soprattutto de “l’approvazione complessiva della traduzione della terza
edizione italiana del Messale Romano”
(i media ne hanno riferito abbondantemente, soprattutto a riguardo alla nuova
traduzione del Padre Nostro) - è stata anche decisa, come recita il comunicato
finale della Conferenza, “la costituzione
di due Santi Patroni. La prima richiesta porta a san Leopoldo Mandić, quale
patrono dei malati oncologici. Fin dagli anni ’80 del secolo scorso, molti
medici, ammalati e loro familiari si sono fatti portavoce del desiderio di
poter invocare in modo speciale questo santo per una realtà di sofferenza – il
tumore – in questo nostro tempo sempre
più diffusa e angosciante. I promotori della richiesta, sostenuti da molti
fedeli [la petizione era sottoscritta da 67.000 firme, N.d.R.], hanno sottolineato come san Leopoldo – che
ha sofferto molto a causa di questa malattia, affrontandola con serenità,
spirito di fiducia e abbandono nella bontà divina – possa essere indicato come
un esempio nella prova della malattia e come un intercessore presso Dio per
invocare il dono della guarigione.” Come è noto, P. Leopoldo ebbe molto a
soffrire a causa delle sue precarie condizioni di salute, oltre che a causa
della sua statura minuscola (pare che fosse alto appena 1,35 m.) e alla
balbuzie che gli rendeva difficoltoso il parlare. Sappiamo che nell’aprile del
1942 egli fu ricoverato all’Ospedale Civile di Padova, dove gli fu diagnostico
un tumore all’esofago. “Se il Signore mi
vuole, mi prenda pure”, disse, aggiungendo un desiderio: “Il Signore mi prenda sulla breccia”
perché, diceva, “un sacerdote deve morire
di fatiche apostoliche, non c’è altra morte degna di un sacerdote”.
Per chi non lo conoscesse, ricordiamo che San Leopoldo
(1866-1942) è stato un frate cappuccino di origine dalmata ma appartenente,
come religioso, alla Provincia Veneta. Qui, a Padova, dal 1909 svolse fino alla
fine, in una minuscola celletta, il ministero della misericordia, richiamando
al suo confessionale innumerevoli persone, desiderose del perdono di Dio. Per
questo fu chiamato il “confessore di Padova”. Avrebbe desiderato farsi
missionario presso i suoi fratelli croati, ma la Provvidenza non glielo
permise, e divenne missionario nel confessionale. I suoi penitenti, come scrive
il Postulatore P. Carlo Calloni, hanno sottolineato la sua “accoglienza
singolare”, la sua “pazienza incredibile”, la sua “delicatezza imperturbabile”,
il suo "grande senso di comprensione”, la sua “signorilità anche per i più
poveri e umili”, il suo “cuore grande”, la sua grande “umanità nell’ascoltare”.
La seconda petizione, giunta alla CEI, riguardava S. Rosa da
Viterbo, dichiarata “patrona della
Gioventù Francescana d’Italia. Si tratta di una giovanissima laica, molto
vicina agli ideali di San Francesco d’Assisi, morta nel 1251. Oggi viene
proposta quale modello di vita evangelica da imitare per camminare sulla strada
tracciata dal Poverello di Assisi e da santa Chiara ed essere sostenuti in un
cammino di vita cristiana coerente e coraggiosa.”
Dopo il
placet della CEI manca solo un ultimo passo, ovvero il sigillo ufficiale della
Congregazione vaticana per il Culto Divino.
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