Pellegrinaggi e spiritualità
Pellegrinaggi e spiritualità
di
Padre Tarcisio Marco Mascia
In tempo di COVID-19 non è forse opportuno parlare o scrivere di pellegrinaggi. Tuttavia, sperando in un prossimo ritorno alla normalità, possiamo dire ugualmente che il pellegrinaggio, ai nostri giorni, è diventato una pratica diffusa. Chi non è stato, almeno una volta, a qualcuno di questi santuari: a Lourdes, Madjugorje, Fatima, Terra Santa, Assisi, ecc.? I moderni mezzi di locomozione rendono facili, rapidi e accessibili i santuari, anche quelli più lontani. Insomma anche il pellegrinaggio è diventato un fenomeno di massa molto praticato. Basta rivolgersi a un’agenzia di viaggi per avere la possibilità di realizzare quello che magari è il sogno di una vita.
Ma il pellegrinaggio non è un’invenzione dei nostri giorni. Già nei primi secoli della nostra era ci si recava in pellegrinaggio soprattutto in Palestina per venerare i luoghi santi, a Roma per venerare le tombe degli apostoli Pietro e Paolo, a Santiago per venerare la tomba dell’apostolo Giacomo e, più tardi, a Canterbury, per visitare la tomba del martire San Tommaso Beckett. Alcuni di loro ci hanno lasciato anche il racconto del pellegrinaggio. Si pensi, per esempio, alla Peregrinatio Aetheriae, dove la pellegrina Egeria, originaria forse della penisola iberica, racconta il suo pellegrinaggio ai luoghi santi intorno al 380 d.C. Un’opera, il suo diario, molto interessante per tante ragioni: storiche, geografiche e anche linguistiche (in riferimento all’evoluzione della lingua latina). Uno spaccato variopinto del mondo dei pellegrini nel Medioevo lo si ritrova anche in opere letterarie, quali ad esempio i Canterbury Tales (1386) di Geoffrey Chaucer.
Fine luglio 1979. Ero un giovane frate quando ebbi l’occasione di partecipare, con un gruppo di giovani, a un pellegrinaggio al Santuario della Madonna Nera di Czestochowa. In Polonia c’era ancora il comunismo e tanta povertà. Solo dopo molte insistenze riuscimmo ad ottenere il visto d’ingresso. Wojtyla era diventato papa da dieci mesi e a giugno aveva compiuto la prima visita nel suo Paese, una visita storica che avrebbe segnato l’inizio di una profonda evoluzione politico-sociale della Polonia. Il nostro pellegrinaggio fu un’esperienza straordinaria: in quarantamila, provenienti da ogni parte del Paese (dall’Italia eravamo un migliaio), a piedi, pregando e cantando, percorremmo un tratto di circa 260 chilometri (da Varsavia a Czestochowa). Di quel pellegrinaggio mi è rimasto un ricordo indelebile. Soprattutto tre cose: la strada, la fatica e la preghiera. Si camminava pregando, sotto il sole o sotto la pioggia, per lo più con lo stomaco vuoto, ma cantando gioiosamente e giovanilmente. Arrivammo a Czestochowa la vigilia dell’Assunta, stanchissimi ma contenti. Affidammo la fatica alla Vergine. Il giorno dopo, davanti a una folla sterminata, partecipai alla solenne concelebrazione, presieduta dal Cardinal Wyszynsky, primate di Polonia.
Strada, fatica, preghiera: un trinomio che riassume i caratteri del vero pellegrinaggio. Il pellegrinaggio è prima di tutto un camminare. Il pellegrino è uno che cammina. “Camminare” è un verbo che appartiene a Dio e che appartiene all’uomo. Anche Gesù si mette in cammino, lo Spirito discende, la voce del Padre viene. Dio viene a noi per rivelarci che Gesù è il figlio amato, e in Gesù ogni uomo è figlio, figlio amato. Anche la vita del cristiano, come quella di Abramo, è un cammino interiore per ascoltare la voce dello Spirito e un cammino esteriore per incontrare il Signore, che si manifesta nella storia personale, anche nel pellegrinaggio.
La strada del pellegrinaggio è faticosa. Una volta la strada era in terra battuta, fangosa, scoscesa, scivolosa, ripida, pericolosa, trafficata da briganti, come quella che scendeva, ai tempi di Gesù, da Gerusalemme a Gerico, dove quel malcapitato (tornava dal pellegrinaggio a Gerusalemme?) fu lasciato dai banditi mezzo morto sulla strada. Ma la fatica e il pericolo, anche oggi, fanno parte del pellegrinaggio: bisogna affrontarli di buona lena, con gioia, allontanando la tentazione della resa, dell’abbandono. Quanti imprevisti o quanti contrattempi anche nei pellegrinaggi di oggi! Partenze e arrivi ritardati, pasti saltati, stanze inadeguate negli hotel, ecc. Il pellegrinaggio misura il livello spirituale di ciascun pellegrino.
Il pellegrinaggio è un cammino intessuto di preghiera: si cammina con lo sguardo rivolto al luogo santo, dove il Signore ci accoglie come figli amati; si prega perché il Signore, magari grazie all’intercessione della Vergine o del Santo che andiamo a venerare, ci ottenga prima di tutto la grazia della conversione del cuore e ogni altro bene che invochiamo per noi stessi o per i nostri cari. Ma la preghiera del pellegrino deve essere prima di tutto una preghiera di lode e di ringraziamento. Pellegrino, come dice l’etimo (lat. per+ager: attraverso i campi) è uno che loda il Signore per le cose belle che vede nell’attraversare campagne e città, borghi e fiumi, colline e montagne. Ogni suo passo è ritmato da un’invocazione, da una giaculatoria, da un salmo, da un canto. Ogni giornata si apre e si chiude con la preghiera. Il Signore risponde alla preghiera del pellegrino col dono dello Spirito Santo.
Infine, il pellegrinaggio è anche un cammino che per lo più si fa insieme ad altri pellegrini, ad altri fratelli: sono i compagni di viaggio che il Signore ci ha fatto incontrare. Non sono lì per caso. Come il Samaritano della parabola, siamo chiamati a farci vicino a ciascuno, a prenderci cura del fratello che ci sta a fianco, simpatico o antipatico che sia, a farci prossimi di lui con umiltà e pazienza.
Quando il Coronavirus sarà scomparso, proviamo a ritrovare la via del pellegrinaggio: sarà, questa volta, per ringraziare il Signore di averci protetti.
P. Tarcisio Mascia
Commenti
Posta un commento