Seraffin Esquirro “il ricercatore di San Saturnino”.
Seraffin Esquirro “il ricercatore di San Saturnino”.I frati cappuccini nella Sardegna del Seicento
di Padre Tarcisio Marco Mascia
Negli ultimi giorni di ottobre, la città di Cagliari ha ricordato il suo santo patrono San Saturnino, in particolare i 400 anni del ritrovamento della sua tomba nel 1621. Fu in quell’anno, tra il 12 e il 14 ottobre, che il cappuccino P. Serafino Esquirro insieme ad alcuni suoi confratelli riportò alla luce i resti mortali del Santo.
Chi era Seraffin Esquirro (o Schirru)?
Marco Antonio Schirru (questo il suo nome da secolare) è stato un frate cappuccino proveniente da una famiglia di Cagliari, abitante in Castello, che deve la sua notorietà al fatto di essere stato testimone oculare, spesso autore materiale e soprattutto dettagliato cronista del ritrovamento dei “cuerpos santos” avvenuta a Cagliari e dintorni nel secondo decennio del secolo XVII.
Il Necrologio dei Cappuccini Sardi fornisce alcuni dati biografici relativi a P. Seraffin Esquirro. Oltre alla sua nascita a Cagliari (non si specificano però né il giorno né l’anno: forse intorno al 1570), sono indicate la data della sua vestizione dell’abito cappuccino (18 giugno 1591) - quando abbandonò il proprio nome assumendo quello religioso di Seraffin - e della sua professione semplice (18 giugno 1592). Da altra fonte sappiamo che, prima di farsi cappuccino, era stato frate dei minori conventuali, che all’epoca avevano il convento là dove sorgeva la chiesa di San Francesco di Stampace (all’angolo tra il Corso Vittorio Emanuele e la Via Sassari), andata distrutta dopo la soppressione degli Istituti religiosi (1866).
La data della vestizione di P. Serafino (1591) coincide con l’anno dell’arrivo dei primi cappuccini nell’Isola. Si trattava di un piccolo gruppo di 12 frati, guidati da P. Zefirino da Bergamo, e inviati in Sardegna dal Ministro Generale dell’Ordine, P. Girolamo da Polizzi. A questa data i Cappuccini erano già presenti un po’ ovunque nella penisola italiana: li ritroviamo nelle Marche (1525), dove erano nati; a Roma (1529), in Calabria (1532), in Sicilia (1534). Quindi a Napoli, Genova, Montepulciano; nel 1540 erano in Corsica, a Bastia, dove veniva fondato il convento di Sant’Antonio, il primo fuori della penisola. Ben 51 anni dopo arrivavano anche in Sardegna. E in questo stesso anno 1591 fondavano due conventi: uno a Cagliari e un altro a Sassari, abbracciando così sin dall’inizio tutta l’Isola.
L’arrivo dei Cappuccini in Sardegna coincideva praticamente con la fine del secolo XVI. L’Ordine contava già circa ottomila frati, dediti pastoralmente soprattutto alla predicazione, all’assistenza degli infermi e degli appestati, all’assistenza dei soldati come cappellani nelle spedizioni militari, in particolare nelle campagne antiturche. E ancora erano presenti sul fronte della resistenza al Protestantesimo (Svizzera, Francia, Germania, Isole Britanniche). Furono altresì impegnati nell’annuncio missionario, in particolare nell’Oriente musulmano.
Il primo gruppo dei Cappuccini giunto a Cagliari fu ospitato fraternamente, dai Padri Conventuali nel loro ampio convento di San Francesco, dove fu loro riservata l’annessa cappella dedicata a S. Giorgio, nella quale i Cappuccini potevano soddisfare alle esigenze e alle pratiche del loro istituto (cfr. Raffaele da Santa Giusta, I Frati Minori Cappuccini in Sardegna, p. 59). Forse fu in occasione di questa presenza che P. Serafino poté conoscere da vicino e stimare questi nuovi fratelli venuti dalla penisola e animati da tanto zelo ed entusiasmo. Maturò così la sua vocazione all’Ordine Cappuccino.
Nel 1607 viene mandato nell’Isola P. Stefano da Camerota con l’incarico di costituire la Provincia di Sardegna. Dopo aver visitato i conventi, egli convocò e celebrò il Capitolo nel gennaio del 1608 nel convento di Sant’Antonio a Cagliari, dove fu eletto egli stesso ministro Provinciale. Con il Provinciale fu eletto anche il nuovo Definitorio, cioè un consiglio composto di quattro religiosi, tra i quali proprio P. Serafino (quarto definitore). In quello stesso anno venne costituito il primo corso di studi, sotto la guida e il magistero del P. Serafino Esquirro e di un altro confratello. Nello stesso tempo in quest’anno P. Serafino è nominato guardiano del convento di Iglesias. È del 1605 un documento contenente una richiesta perché P. Serafino vada a predicare il quaresimale nella Cattedrale di Oristano.
Nasceva nell’anno 1608 anche la nuova Provincia di Sardegna, articolata nelle due custodie di Cagliari e di Sassari.
Tre anni dopo nel 1611, nel Capitolo Provinciale celebratosi a Cagliari, P. Serafino fu eletto Ministro Provinciale: era la prima volta che un cappuccino originario dell’Isola veniva scelto per quella carica, nella quale sarà confermato anche nel capitolo successivo del 1613.
P. Serafino – per quel che ci è dato sapere – occuperà ancora ruoli di rilievo all’interno della comunità provinciale: sarà più volte definitore e guardiano del convento di Sant’Antonio a Cagliari. Fu durante questi anni della sua presenza a Cagliari che ricevette dall'arcivescovo di Cagliari don Francisco D’Esquivel, suo grande amico ed estimatore, l’incarico della direzione degli scavi alla ricerca dei Cuerpos Santos (1614). Di questi scavi P. Serafino ci ha lasciato la narrazione nella sua opera "Santuario de Caller y verdadera Historia de la invención de los cuerpos santos hallados en la dicha ciudad y su arzobisbado" (En la imprenta del doctor Antonio Galcerin, por Juan Polla. Caller 1624).
La ricerca dei corpi santi
Scrive P. Raffaele Contini da Santa Giusta: “Nei primi anni del secolo XVII, quando più acuto era il dibattito per il riconoscimento dei diritti di Primazia fra la Chiesa Calaritana e quella Turritana, iniziò nelle due città di Cagliari e Sassari quel periodo morboso della ricerca e delle invenzioni delle reliquie di corpi santi, che determinarono quel fanatismo religioso di cui abbiamo magniloquenti esempi nelle ampollose relazioni degli autori del tempo (Manca, Schirru, Bastelga, Bruni, Bonfant), tutte intese a dare apparenza di fondamento documentario alle fantastiche creazioni agiografiche basate, perlopiù, su errate interpretazioni delle epigrafi funerarie rinvenute principalmente durante gli scavi praticati nell’area cimiteriale sub divo, che si svolgeva nel sesto secolo attorno all’antica basilica di S. Saturnino, in Cagliari. Purtroppo, taluni esemplari di tali epigrafi non si presentano in una luce di piena genuinità.” (P. Raffaele da Santa Giusta, I Frati Minori Cappuccini in Sardegna, 1590-1697 - Milano 1958, Ristampa del 2008, p. 159)
Dopo il Concilio di Trento era sorto un nuovo interesse per il culto dei Santi, interesse che si esprimeva anche nella ricerca di reliquie di martiri. L’esempio veniva anche da Roma, che fondava il suo primato universale anche sul numero e l’antichità delle reliquie custodite nelle Catacombe. Allo stesso modo i vescovi nel Seicento si onoravano di portare nella cripta della loro cattedrale un buon numero di tali reliquie. I semplici cristogrammi e i rami di palma incisi sulle lastre tombali erano ritenuti segni di martirio, mentre non erano altro che semplici segni di defunti morti con la fede in Cristo.
Dopo lo scavo fatto a Porto Torres dal vescovo Gavino Manca Cedrelles, a partire dal giugno 1614, l’arcivescovo di Cagliari don Francisco D’Esquivel, dal canto suo iniziò a scavare nella chiesa di S. Saturnino e nell’attigua zona cimiteriale a partire dal novembre di quello stesso anno.
Il ritrovamento di San Saturnino
Lo scavo permise di portare alla luce numerose lastre con iscrizioni che furono interpretate come titoli relativi a sepolture di martiri. Di tali ricerche si sono conservati gli Actas o giornali di scavo, come era prescritto dal Concilio. Questi resoconti sono raccolti in tre volumi, che contengono gli esiti delle ricerche effettuate dal 1614 al 1650 e hanno per titolo “Actas originales sobre la imbencion de las reliquias de Santos que se hallaron en la Basilica de San Sadurro”.
L’arcivescovo D’Esquivel, inoltre, compose e inviò una relazione a stampa sulla “invenzione” (dal latino inventio, che significa “ritrovamento”) alla Santa Sede e al re Filippo III, insieme all’elenco dei corpi santi ritrovati negli scavi dal 1614 al 1616. La storia di queste scoperte venne poi ulteriormente sviluppata e narrata con maggiori dettagli dal nostro frate cappuccino P. Serafino Esquirro in un ponderoso volume di oltre 500 pagine dal titolo: Santuario de Caller, y verdadera historia de la invencion de los cuerpos santos hallados en la dicha ciudad y su arzobispado (Cagliari, 1624); in questo suo libro il religioso accenna in più luoghi anche a una “segunda parte desta obra”, che evidentemente aveva in animo di comporre o aveva composto, ma in questo secondo caso se ne ignorano data e luogo dell'eventuale pubblicazione.
In tale opera, come interessa notare quale specchio della personalità dell’Autore, pienamente compreso di umiltà francescana, pur essendone stato il più delle volte diretto protagonista, l'Esquirro racconta i fatti e le clamorose scoperte effettuate nel corso degli scavi minimizzando il più possibile il proprio ruolo di primo piano del quale, se non fosse per il riscontro fornito da altre fonti, il lettore moderno non avrebbe quindi potuto avere cognizione.
Emblematico, in tal senso, è proprio il resoconto di una delle invenciones considerate più importanti in assoluto, quella delle reliquie del Patrono di Cagliari San Saturnino Martire, che impegnò gli scavatori per tre giorni consecutivi, dal 12 al 14 ottobre 1621. L'Esquirro si limita, pur descrivendo dettagliatamente come e quanto venne via via riportato alla luce, a specificare che lo scavo fosse stato eseguito alla sua presenza e alla presenza di altri tre suoi confratelli cappuccini, quasi che ne fossero stati semplici testimoni passivi. In realtà furono proprio questi religiosi, armati di pala e piccone, gli autori materiali del delicatissimo scavo, come l'Esquirro però lascia semplicemente intuire con una sorta di “voce dal sen fuggita” laddove non resiste a specificare che il 13 ottobre 1621, una volta ritrovato l'epitaffio identificativo della tomba del santo, “io stesso portai a Monsignor Arcivescovo la lastrina con l'iscrizione e sua Signoria, dopo averla letta, con grande piacere e allegria salì in carrozza, in compagnia di molti canonici e altri che seguirono con mezzi propri, e alla testa di un'immensa folla si recò alla basilica di San Saturnino. Subito dopo sopraggiunse il Viceré, conte don Alonso de Erill, con i Signori del Consiglio di Sua Maestà, arrivarono i Signori Giurati della Città, i marchesi e altri nobili, molti cavalieri e talmente tanta gente da lasciare la città completamente spopolata”.
Anche Dionisio Bonfant nella sua opera “Triumpho de los Santos del Reyno de Cerdeña”, pubblicata a Cagliari nel 1635, racconta più o meno le stesse cose, soffermandosi soprattutto a raccontare con dovizia di dettagli i festeggiamenti sfarzosi che ebbero luogo dopo il ritrovamento del sarcofago con le ossa del Santo Martire. Fu lui, il Bonfant, a rendere omaggio alla memoria del P. Esquirro, in quel momento scomparso ormai da alcuni anni, raccontando in dettaglio che una volta “recuperata l'iscrizione, il Signor Arcivescovo diede ordine che si continuasse a cercare la tomba del santo e il giorno seguente, di primo mattino, (…) la Maestà Divina permise che venisse ritrovato il sarcofago contenente il sacro corpo: era di marmo bianco, decorato sul lato frontale con figure di numerosi angeli o puttini a bassorilievo i quali, con vari strumenti musicali, sembravano eseguire un concerto; e può dirsi veramente divina l'ispirazione che mosse a rappresentare nel sepolcro, in figura, la celestiale melodia di cui San Saturnino gode nella gloria del cielo. (...) Alla presenza dell'Eccellentissimo Signor Viceré, degli Illustrissimi Signori l'Arcivescovo di Cagliari, i Vescovi di Bosa e di Madauro, del Consiglio Civico e della Magistratura, del Consiglio della Corona, della nobiltà e del popolo venuti a constatare il tanto desiderato ritrovamento del santo, il sarcofago fu aperto e, per ordine dell'Arcivescovo, il padre Seraffin Esquirro vi introdusse la mano estraendone un osso di braccio, affinché tutti potessero vederlo e venerarlo. Nel medesimo istante il clero intonò il Te Deum laudamus, la fanteria cominciò a sparare in aria, a sventolare bandiere, e dai bastioni della città in segno di giubilo furono fatti tuonare tutti i cannoni. La salva durò oltre un'ora, durante la quale maestranze esperte procedettero con grande perizia a estrarre dallo scavo il sarcofago del santo, che fu portato nella parte chiusa della basilica. Esso fu ricoperto con drappi di seta e legato, in modo che nessuno potesse introdurvi le mani e rubare qualche reliquia, e su ciascun nodo delle funi furono apposti i sigilli del Re, dell'Arcivescovo e della Città”.
Fu poi organizzata una processione generale per trasportare solennemente il sarcofago verso la Cattedrale. Qui giunto, fu posto su un catafalco e rimase esposto per otto giorni alla venerazione del pubblico. Terminata l’ottava, il sarcofago fu riaperto e furono estratte tre reliquie destinate rispettivamente a Sua Maestà il Re, alla cattedrale e al Vicerè. L'osso di braccio che l'Esquirro aveva avuto l'onore di poter toccare per primo, inoltre, con molte altre reliquie dei martiri cagliaritani fu donato alla comunità cappuccina di Cagliari, che tuttora lo custodisce e venera nella propria chiesa di Sant'Antonio da Padova a Buoncammino, oggi meglio conosciuta come chiesa di Sant'Ignazio da Laconi. Infine il sarcofago fu richiuso, sigillato e posto provvisoriamente nella cappella del Santissimo, o di Santa Cecilia, in attesa che fosse terminata la costruzione del giustamente celebre Santuario dei Martiri, dove fu poi trasportato e tuttora si può ammirare.
Infine, per dare una collocazione dignitosa alle reliquie ritrovate, l’arcivescovo D’Esquivel volle costruire una Cripta Martyrum sotto il presbiterio e il coro della Cattedrale di Cagliari. Terminati i lavori, il 27 novembre 1618 si provvide alla traslazione delle reliquie con una solenne processione. Nel 1622 il D’Esquivel aggiunse al Martirologio un lungo elenco di martiri. Gli scavi continuarono anche dopo la sua morte e la lista dei martiri si allungò ancora fino a raggiungere il numero di 337, suscitando molte riserve e rimostranze. Molti dubbi riguardavano le iscrizioni, ritenute in gran parte non autentiche o interpretate arbitrariamente. La comunissima sigla B(onae) M(emoriae) venne letta erroneamente come B(eatus) M(artyr). Altri testi, pagani e cristiani, vennero trasferiti in modo maldestro da un ambito all’altro.
Il fervore degli scavi si diffuse così in tutta l’isola e interessò molti centri. Promotori erano quasi sempre i preti. “Sembra che i Sardi di questo secolo – scriveva il cistercense F. Ughelli – spinti dallo stesso estro degli spagnoli, si siano messi a inventare antichità e quelle che presentano come resti di antiche memorie presentano indizi non esigui di frode”. Uno dei Bollandisti, padre Paperbroch, affermò che gli autori delle relazioni sui ritrovamenti si erano lasciati traviare da nimia simplicitate (semplicità eccessiva). All’Esquirro in particolare rimproverò l’esagerato campanilismo e al Bonfant di aver inventato storie edificanti.
Quando il D’Esquivel lasciava la scena di questo mondo (21 dicembre 1624), anche P. Serafino Esquirro era già avanti negli anni e, secondo il Necrologio dei Cappuccini Sardi, la sua scomparsa avvenne alcuni anni dopo quella del suo grande amico vescovo, e cioè il 4 novembre 1630.
Moriva così il primo illustre cappuccino della Sardegna.
Padre Tarcisio Marco Mascia
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