La Sardegna di fine Settecento nei diari di Rembert von Amorbach
La Sardegna di fine Settecento
nei diari di Rembert von Amorbach
di P.Tarcisio Mascia
La Sardegna come «terra da scoprire» ha affascinato in passato numerosi scrittori e intellettuali. Si pensi per tutti allo scrittore inglese David Herbert Lawrence (1885-1930), che visitò la Sardegna nel 1921: l’Isola è vista, secondo uno stereotipo diffuso, come una terra selvaggia, antica, indomabile e i sardi sono paragonati ad animali selvaggi. Prima che Lawrence mettesse piede nell’Isola, la Sardegna era stata visitata e fatta conoscere da altri illustri visitatori dell’Ottocento: ricordiamo Alberto La Marmora, che ne diffuse la conoscenza con la sua opera «Viaggio in Sardegna» (1826); Antoine Claude Valery, che viaggiò per tutta l’Isola (visitò anche il nostro convento di Sanluri) e ne scrisse in un suo libro pubblicato nel 1835; il tedesco Heinrich von Matzan, anche lui autore di un’opera sulla Sardegna, tradotto e diffuso in Europa, e molti altri. Tuttavia, in epoca moderna, il primo a scrivere sull’isola e sui problemi della società sarda fu il pastore luterano Joseph Fuos, che soggiornò a Cagliari negli anni 1773-1777 in qualità di cappellano di un reggimento tedesco di stanza in città. Di lui si ricorda in particolare il giudizio molto lusinghiero su Fra Ignazio da Laconi, riferito anche dai biografi del Santo.
Qualche anno dopo il Fuos, nel 1785, giungeva in Sardegna anche il frate cappuccino tedesco Rembert von Amorbach, originario della Provincia Renana. Arrivava al seguito del Ministro Generale dei Cappuccini, P. Erhard von Radkersburg, in qualità di segretario. Lo accompagnava in occasione delle sue visite alle Province dell’Ordine, visite che avvennero negli anni 1776-1779 e 1783-1785 e in occasione delle quali compilò due diari. Le province sarde – la Calaritana e la Turritana – furono visitate alla fine del secondo viaggio, nei primi mesi del 1785. Infatti, il 1° febbraio 1785 la nave che trasportava gli illustri visitatori entrava nel porto di Cagliari. Rembert sottolinea nel suo diario che il golfo era bello e che dal porto «la città offre una vista molto bella». E così la descrive: «La città è abbastanza grande e conta, come si dice, circa 300.000 anime. È sostanzialmente divisa in quattro parti, una vicina al mare (la Marina, n.d.r.), dove vivono per lo più mercanti, l’altra, dove vivono gli artigiani (Stampace, n.d.r.), che però sono pochi e, a quel che sento, non possiedono alcuna abilità; la terza parte si chiama Villanova perché è stata aggiunta alla città, e vi abita quasi tutta gente ordinaria e vi sono alcuni conventi. La quarta infine si chiama Castello, è la più grande e si trova in posizione abbastanza elevata. Lì vive la nobiltà, abbastanza numerosa; c’è la cattedrale, il palazzo del viceré e dell’arcivescovo, che comunicano l’un l’altro, il municipio e tre monasteri di monache. Vi risiedono anche tutti gli ufficiali; ha molte e belle opere di fortificazione ricavate da rocce naturali, dove ci sono molti cannoni; possiede la più bella visuale sul golfo, l’università…».
Non mancano i riferimenti alla situazione politica quando scrive: «Quasi tutti gli impiegati e gli addetti al governo sono piemontesi, del che i sardi si lamentano molto. Ci sono anche molti vescovi piemontesi, dei quali due sono domenicani, uno agostiniano e uno carmelitano. Ci sono due reggimenti di soldati, uno piemontese e l’altro tedesco.» Interessante il riferimento alla situazione linguistica: «I popolani e i borghesi parlano pochissimo italiano e invece parlano la lingua del posto che è un mixtum di greco, spagnolo, latino e che so io altro che diviene quasi incomprensibile. I signori colti parlano correntemente quasi solo lo spagnolo, come pure i religiosi, benché sia stato introdotto ora anche un po’ di italiano. Nelle biblioteche si trovano per lo più libri in lingua spagnola. Nella cattedrale durante la quaresima si predica tre volte la settimana la mattina in italiano e la sera in sardo; nelle altre chiese sardo e dalle monache di solito spagnolo. Tre monasteri femminili per la lettura a tavola e la conversazione usano ordinariamente il catalano.» È da notare che la Sardegna era passata al Piemonte già dal 1718.
Continuando a descrivere la città, Rembert si sofferma anche sul clima. La visita si svolse in pieno inverno. Lo sbarco infatti avvenne sotto la pioggia. Osserva: «Questo clima è il più mutevole che abbiamo incontrato». Sono – come si vede – osservazioni a caldo, senza il conforto di una precisa e documentata rilevazione. Il diarista non dimentica di descrivere alcuni monumenti importanti di Cagliari, quali la Cattedrale e il Santuario di Bonaria. Della Cattedrale dice che «non è molto grande, ma abbastanza bella. L’altare maggiore è rialzato e al di sotto c’è una cripta grande e bella ricca di corpi di santi martiri che qui sono stati uccisi o sono stati esiliati dagli imperatori. Si afferma che sono stati qui san Pietro e anche San Giacomo quando si recò in Spagna». Non mancò neppure la visita alla chiesa dei mercedari, «che si trovano fuori città presso il mare. Nella loro chiesa si trovano due quadri miracolosi della Beata Vergine. Uno ha il titolo de Mercede, l’altro, che si trova sull’altar maggiore, si chiama Madonna de bon aire, cioè Madonna della Buona Aria.» Rembert racconta quindi la storia dell’arrivo dell’immagine della Vergine «in una cassa chiusa alcuni secoli fa e quando si cercò di aprire la cassa apparve una fortissima luce con una barchetta d’avorio». E aggiunge un particolare curioso. Dice che «la sunnominata barchetta d’avorio, che pende in chiesa legata da uno spago, già da oltre 200 anni, mostra sempre il vento che spira fuori di questo golfo e ci si regolano marinai cattolici e non cattolici. Nessuno però finora ha mai potuto notare quando la barchetta si muova. Sit benedictus Deus et sancta Mater eius.»
Come si può notare, non manca al frate tedesco il gusto dell’ironia. La visita del Ministro Generale, a motivo del suo ufficio, aveva come destinatari i conventi e i frati delle due Province religiose. Quindi l’itinerario degli spostamenti era stabilito in rapporto alla collocazione dei conventi. Per quanto riguardava la Provincia Calaritana l’itinerario venne così definito: Cagliari, Quartu S.E., Villasor, Sanluri, Barumini, Masullas, Oristano. Furono esclusi solo i conventi di Iglesias e di Nurri, perché fuori mano. Si tenga presente che all’epoca era proibito ai frati di cavalcare e quindi gli spostamenti da un convento all’altro si facevano a piedi, tranne in casi eccezionali. Più volte Rembert lamenta che le strade «erano così fangose che dovemmo farne alcuni tratti su un carro a buoi». Talvolta il fango arrivava «fino al ginocchio».
Una parola sui conventi visitati. A Cagliari c’erano due conventi: quello di Buoncammino, detto anche Convento Maggiore o Convento di Sant’Antonio, e il Convento di San Benedetto, sede del noviziato. Nel convento di Buoncammino la famiglia religiosa era composta da 13 sacerdoti e 25 fratelli laici. Rembert precisa: «qui c’è il lanificio, l’infermeria provinciale e possiedono una farmacia veramente bella e ben fornita». Dal diario veniamo a conoscere altri interessanti dettagli circa il convento e l’orto attiguo (quello che oggi viene comunemente chiamato «l’orto dei Cappuccini»). «L’orto di qui – egli scrive – è molto grande e ha tre o quattro grandi grotte sotto le rocce che una volta tempore romanorum servivano da cisterne ed erano piene d’acqua. Una di esse serve ancora allo stesso scopo ed è ancora piena d’acqua, la migliore di Cagliari, e il viceré ne manda a prendere ogni giorno e le dame e i signori che passeggiano fino al nostro convento, ne bevono quasi ogni giorno». Del convento di San Benedetto si dice che «non è tenuto molto pulito e la sacrestia è fornita molto miseramente». Il convento era sede del noviziato «con quattro chierici e due laici novizi». «Il guardiano era un simplex sacerdos, che non sapeva l’italiano e parlava sempre spagnolo.»
Dopo Cagliari, Il Ministro Generale si recò in visita al convento di Quartu Sant’Elena. Rembert scrive al riguardo: «La nostra chiesa è molto frequentata ed è affollata specie nei giorni di domenica e di festa.» È tutto. Il racconto di Rembert è solitamente piuttosto laconico quando descrive i conventi visitati, al contrario sembra molto più attento agli altri luoghi e alla gente incontrata. Si legga ad esempio quanto dice circa i costumi della gente di Quartu: «Tutti i secolari qui portano sopra i vestiti una giacca del nostro colore con un cappuccio a punta come il nostro e come i marinai… I popolani calzano grosse calze nere di lana, larghi calzoni bianchi di lino aperti sotto il ginocchio e sopra questi una piccola gonna da donna fissata nel mezzo. Hanno un grande grembiule rigido, una sopragonna marrone e un lungo panno nero largo tre o quattro spanne che portano sopra la spalla destra e un capo del quale tirano sotto la spalla sinistra mentre portano l’altro sotto il braccio e serve loro da mantello sia per il vento che per la pioggia…»
Così invece descrive i costumi delle donne: «… la parte anteriore superiore del corpo è tutta libera e viene coperta solo dalla camicia chiusa al collo. È uno spettacolo indecoroso vedere queste donne con i loro grossi seni, come mezze mucche svizzere e si dice che le giovani ci piazzino sotto altre cose per farsi vedere con il seno più prospero» (sic!, n.d.r.). Ancora qualche annotazione. «Benché le case di qui siano basse e fatte di terra, le abbiamo viste dappertutto abbastanza belle, con quadri e stanze pulite, dove si ritrovano e ricevono gli estranei. Questo paese è grande e conta circa 4000 anime; tutti parlano sardo… qui hanno del vino davvero buono, specie quello che qui chiamano Monaca e Canonada. Coltivano molti cavolfiori qui….». Attraverso strade brutte e fangose, i visitatori giungono a Sanluri dove, come al solito, «tutte le case sono di terra e a un solo piano». L’accoglienza però è straordinariamente calorosa, con «un incredibile concorso di gente fino al convento che si trova un po’ più in alto del paese». Non altrettanto lusinghiera è la presentazione del convento («sporco») e della sacrestia («tutta cenciosa»). Al contrario, il convento di Barumini è indicato come «abbastanza pulito». E riferendosi ai conventi visitati, Rembert scrive: «In tutti questi conventi ci sono cinque sacerdoti e cinque fratelli laici e vivono dappertutto molto male, non per mancanza di elemosine, ma per cattiva economia». I visitatori arrivano finalmente a Oristano, città presentata come «piccola, molto malsana, le strade brutte e le case ancor di più… Il duomo è bello, ha altari di buon marmo, anche se non è molto grande. Si sta edificando un nuovo seminario grande e bello». Non mancano neppure le annotazioni circa i costumi delle donne, osservate in occasione della festa di Sant’Antioco martire. «La sera ci fu una corsa di cavalli e vedemmo molte carrozze sulle quali stavano figure di donne nei loro costumi, ma con le loro tette da mucche quasi del tutto scoperte».
Il convento di Oristano, a detta di Rembert, è tra i conventi antichi visitati «il migliore e il più pulito». E qui, alla presenza del Ministro generale, ha luogo anche il Capitolo Provinciale per l’elezione dei nuovi Superiori Provinciali. Di grande interesse sono per il lettore di oggi le pagine nelle quali l’Autore racconta l’accoglienza ricevuta da parte della gente, un’accoglienza sempre e ovunque calorosa e generosa. Tutti fanno a gara per salutare e omaggiare gli illustri visitatori. Ad esempio, l’Arcivescovo di Cagliari, al loro arrivo, manda in dono «un grosso pesce già preparato, un piatto con pernici e un altro con beccacce e colombe selvatiche insieme a 8 preziose bottiglie di vino». Il viceré fa loro pervenire «pesce, vino e pane», mentre il Marchese di Laconi, durante la visita al convento di Villasor, «inviò al Reverendissimo 10 libbre di cioccolata, e molto zucchero e caffè, vino, pesce, pane…». A fine aprile, terminata la visita alla Provincia Calaritana, il Ministro generale con il suo seguito, si dirige verso Nord, dove visita la Provincia Turritana, anch’essa raccontata da Rembert nel suo diario. (1 – continua)
P. Tarcisio Mascia
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