Fede, devozione e carità in Sardegna nei giorni della peste del 1652

Fede, devozione e carità in Sardegna nei giorni della peste del 1652

di P. Tarcisio Mascia


La recente pandemia ha richiamato alla memoria dei Sardi i giorni della peste che imperversò nel Seicento, mietendo ovunque migliaia di vittime.

Sembra che la peste in Sardegna sia arrivata inizialmente in Alghero agli ultimi di maggio del 1652. La colpa venne subito addossata al Governatore della città, perché aveva dato via libera a una nave proveniente dalla Catalogna, che aveva scaricato con le merci anche l’infezione. 

La peste si diffuse quindi rapidamente da Alghero a tutta l’isola, da Nord a Sud, fino a raggiungere Cagliari, che a seguito di ciò dovette sospendere ogni attività commerciale col mondo esterno.

Anche in questa circostanza l’epidemia ha avuto il suo narratore nella persona del cappuccino P. Giorgio Aleo (1620-1695). Dal racconto che ci ha lasciato, sappiamo che la città, colta all’improvviso, divenne un cimitero. 

Tra le prime vittime ci fu l’arcivescovo di Cagliari Mons. Bernardo de La Capra; poi il viceré Don Francesco Fernandez de Castro Conte de Lemos. In effetti l’epidemia fu devastante in tutta l’isola, colpendo tutte le categorie sociali, prescindendo dalla loro appartenenza o dal loro rango. A nulla valsero i provvedimenti per limitare la diffusione del contagio; a nulla valsero apparentemente le funzioni religiose e le devozioni ai santi. La popolazione era impotente davanti all’ecatombe di vittime che la peste mieteva ovunque. E finalmente a nulla valsero le discussioni “filosofiche” nelle quali si cimentavano spesso le persone colte per individuare le cause della peste.

Il desiderio di alleviare le sofferenze della gente e la carità cristiana spinsero i religiosi ad aprire le loro chiese ed i conventi per gli appestati, prestando assistenza agli infetti per quasi cinque anni a partire dal maggio del 1652 all’ottobre del 1656, quando il morbo cessò – così si ritenne – grazie all’intercessione del martire Sant’Efisio, patrono della città. In città furono prese tutte le misure atte a limitare il più possibile le conseguenze del morbo. Si organizzarono i Consigli di giunta di Sanità nei diversi rioni. Il numero delle vittime fu tale, che occorse istituire i cimiteri nelle diverse borgate.

In concomitanza con il diffondersi della peste, avvenne a Cagliari un episodio che fece scalpore e che P. Giorgio Aleo racconta nella sua “Storia Cronologica di Sardegna (1637-1672)”. L’episodio accadde il 17 luglio del 1652, durante un violento temporale. Un fulmine cadde sulla chiesa dei Cappuccini di Buon Cammino, buttò giù la croce del campaniletto e, per il foro della corda della campana, penetrò nel coro, mentre i religiosi recitavano la compieta; passò quindi nella chiesa, bruciò le tovaglie dell’altare maggiore, scardinò la porticina del tabernacolo, scaraventandola in fondo alla chiesa e fondendo la pisside con le ostie consacrate. Tra il mucchio delle ceneri delle tovaglie inzuppate dall’acqua gettata per spegnere le fiamme, si trovarono le particole del tutto illese. Questo fatto straordinario indusse il Municipio a far celebrare nella chiesa dei Cappuccini solenni Quarantore di esposizione del SS. Sacramento con predicazione, alle quali presero parte ufficialmente tutte le autorità.

La peste arrivò anche a Sassari. “La cittadinanza – racconta Raffaele da Santa Giusta, citando P. Giorgio Aleo – restò abbandonata ai ladri, ai becchini, i quali, non dissimili dai monatti manzoniani, ritiravano dalle case morti e ammalati insieme, per evitare il fastidio di tornare a riprenderli, e buttavano gli uni e gli altri ancora vivi nei cisternoni, per non perdere tempo a scavare fosse”.

Le autorità di Sassari allora chiesero ai Cappuccini la loro pietosa assistenza. Il superiore locale, riunita la fraternità nel refettorio, designò se stesso con altri cinque religiosi a cimentarsi con la morte. Genuflessi, chiesero perdono ai loro confratelli; seguirono abbracci, lacrime per la separazione e dal refettorio furono accompagnati all’uscita dagli altri confratelli.

Non tutti però condivisero la decisione del superiore. Infatti i religiosi rimasti fecero osservare la sconvenienza di lasciar la famiglia senza capo, l’indelicatezza del guardiano di essersi da se stesso prescelto ad una missione che, anche se approvata dal superiore, era viziata all’origine: il capitano di una nave  deve essere l’ultimo a lasciar la nave in caso di naufragio. Il superiore si arrese a tali considerazioni, tirò a sorte un nome fra gli aspiranti, e benedisse il fortunato drappello che si lanciò imperterrito fra gli orrori della città.

I Cappuccini – scrive P. Atanasio da Quartu S.E. – fecero sgombrare le strade che trovarono barricate, ed asportare i cadaveri non sepolti, raccolsero gli orfani vaganti in cerca dei loro genitori. Si gettavano là dove c’era bisogno della loro presenza.

L’esempio dato dai cappuccini di Sassari venne seguito negli altri conventi. Quello di San Benedetto in Cagliari spalancò la portineria per ricevere gli infetti, ad uso dei quali i religiosi offrirono le loro masserizie, la biancheria ed ogni servizio caritativo. Dal convento di Buoncammino era un continuo sfilare di religiosi diretti parte all’ospedale di Sant’Antonio (sito in via Manno), parte  verso dove languivano i condannati alle regie galere.

Dietro l’immane tragedia della peste e delle sue vittime, il popolo vide la causa negli innumerevoli peccati commessi dagli uomini. Perciò la sua fiducia fu riposta nella protezione del Patrono S. Efisio e della Vergine di Bonaria. I loro simulacri per questo furono condotti per le vie della città. Sull’altare maggiore del Duomo rimasero esposte le reliquie e la statua di S. Efisio, finché la peste non ebbe fine. La strage fu miracolosamente placata e, per voto popolare, la statua del santo nel maggio del 1657 venne posta entro un cocchio e accompagnata dalla chiesa di Stampace all’altra di Pula, nel luogo in cui si ritiene sia avvenuto il martirio del santo.




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