A colloquio con i poeti - Lettura dell'anima, una via a Dio?


Credere oggi


A colloquio con i poeti


LETTURA DELL’ANIMA


Una via a Dio?



Accostare i poeti è sempre difficile: impongono cautele, esigono dal lettore esperienza linguistica, sensibilità raffinata, capacità di vibrazioni interiori, attenzione alle alchimie di suoni e parole. Il linguaggio poetico, quando è autentico, è l’espressione più compiuta e più densa dell’esperienza umana; lo è ancor più quando diventa specchio dell’anima, scavo nel profondo, là dove si agitano e si compongono passioni e sentimenti, maturano scelte e consumano misfatti: intreccio, insomma, di molte cose, destinate per lo più a restare incognite.


Più ancora che per il passato, i poeti d’oggi prediligono il lavoro di scavo, volentieri s’inoltrano nelle pieghe dell’anima e dicono di sé: a volte con reticenza, talora con compiaciuta sincerità, spesso con dichiarata presunzione di coerenza.


Uno di questi poeti è Camillo Sbarbaro, ligure, nato nel 1888 e morto nel 1967. La sua notorietà è affidata soprattutto a Pianissimo, “una specie di sconsolata confessione fatta a fior di labbra a me stesso”. Confessione di certezze perdute, di città alienanti, di ripiegamento su di sé: l’individuo è come frantumato fino a diventare sonnambulo o ridotto a spettatore inerte della vita, anzi poeta della desolazione, dell’aridità interiore, come Baudelaire “poeta maledetto”, “storico di cupidige e di brividi” (Montale).


Quali le note della poesia di Sbarbaro?


Un invito al silenzio: “Taci, anima stanca di godere / e di soffrire… Giaci come / il corpo, ammutolita, tutta piena / d’una rassegnazione disperata. // Non ci stupiremmo, / non è vero, mia anima, se il cuore / si fermasse, sospeso se ci fosse / il fiato…”.


La vita, come cammino onirico: “… camminiamo, / camminiamo io e te come sonnambuli… // La vicenda di gioia e di dolore / non ci tocca… Nel deserto / io guardo con asciutti occhi me stesso”.


Sensazione di cecità illusoria: “Un cieco mi par d’essere, seduto / sopra la sponda d’un immenso fiume. / Scorrono sotto l’acque vorticose, / ma non le vede lui: il poco sole / ei si prende beato. E se gli giunge / talora mormorio d’acque, lo crede / ronzio d’orecchi illusi. // Perché a me par, vivendo questa mia / povera vita, un’altra rasentare / come nel sonno, e che quel sonno sia / la mia vita presente”.


E smarrimento: “Come uno smarrimento allor mi coglie, / uno sgomento pueril. Mi seggo / tutto solo sul ciglio della strada, / guardo il misero mio angusto mondo / e carezzo con man che trema l’erba”.


E tristezza: “Son questi i tristi / giorni in cui senza volontà si vive, / i giorni dell’attesa disperata”.

E domande: “A volte sulla sponda della via / preso da un infinito scoramento / mi seggo; e dove vado mi domando, / perché cammino. E penso la mia morte / e mi vedo già steso nella bara / troppo stretta fantoccio inanimato… // Quant’albe nasceranno ancora al mondo / dopo di noi! Di ciò che abbiamo sofferto / di tutto ciò che in vita ebbimo a cuore / non rimarrà il più piccolo ricordo. // Le generazioni passan come onde di fiume…”


E stupore: “Talora nell’arsura della via / un canto di cicale mi sorprende. E subito ecco m’empie la visione / di campagne prostrate nella luce… / E stupisco che ancora al mondo sian / gli alberi e l’acque, / tutte la cose buone della terra / che bastavano un giorno a smemorarmi…”.


E sorriso: “Ma poi che sento l’anima aderire / ad ogni pietra della città sorda / com’albero con tutte le radici, / sorrido a me indicibilmente e come / per uno sforzo d’ali i gomiti alzo…”


Qualcuno ha scritto che nella poesia di Sbarbaro c’è “una sorta di religiosità laica” (Gina Lagorio): noi diremmo “religiosità” tout-court, perché di religiosità ne esiste una sola, quella di chi nelle cose e nelle vicende umane percepisce una misteriosa presenza, di cui, pur senza sapere il nome, sa cogliere i riverberi e udire la voce. Del resto Sbarbaro stesso ha scritto: “Se ringraziare il sole, è già pregare, anch’io prego: da miope – senza chiedere”. Chi è miope non è cieco, anche se la sua vista è difettosa. Infatti il Nostro sa vedere nell’anima e ciò che c’è dentro: illusioni, smarrimento, tristezze, ansia, stupore, incertezze, interrogativi; ma anche ciò che le sta attorno: il sole, gli alberi, il mare, il cielo, le nuvole, i fiori. Ma, insieme, la forza delle passioni, della lussuria, della cupidigia, della presunzione offusca lo sguardo, sottrae alle cose la nitidezza dei contorni, distoglie la mente e il cuore da domande più audaci e più esigenti. E, assenti le domande, anche le risposte: è la miopia d’anima, la pretesa dimensione “laica” della religiosità, che ultimamente è mancanza di coraggio, paura di pronunziare il Nome che “è al di sopra di ogni altro nome”. I poeti sono anch’essi figli e testimoni del proprio tempo; e il nostro tempo fa divieto di parlare di Dio. Sbarbaro, perciò, intuisce la soglia di Dio, ma preferisce starsene al di qua, come quando, rifugiandosi nel mondo delle illusioni, dice alla sorella: “E se vuota ci paia l’esistenza / e se il rimpianto di tutt’altra vita / alla gola ci afferri qualche volta, / alla consolatrice unica andremo. / Delle giornate intere noi staremo / con le due mani aperte sopra l’erba, / quasi lieti d’esistere per quello. / E vivremo così in compagnia / dei maggiori fratelli, i fiumi e i boschi, / pacificati con la nostra sorte”.


Nonostante l’accennata miopia, i poeti sono in certo modo curatori d’anime, perché dell’anima sono attenti e sensibili conoscitori: essi hanno ricevuto la missione di rivelare il Verbum, la Parola, che si cela nelle parole e nel sentire degli uomini. Un carisma, un ministero, un servizio di grande dignità e di misteriosa e inesauribile pregnanza. Sbarbaro lo ha svolto al meglio, accompagnandoci con i suoi versi in questa lettura dell’anima: abbiamo con lui camminato, con lui provato illusioni, scoramento, stupore, e percepito la presenza inconfessata di Colui che, pur Innominato, ci salva per Grazia. “Le due mani aperte sopra l’erba” sono come le pagine aperte alla Parola, come l’anima a Dio: come Sbarbaro, come ogni  uomo.


Tarcisio Mascia

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