Padre Giorgio Aleo da Cagliari - Il cappuccino difensore dei perseguitati

        Padre Giorgio Aleo da Cagliari

       Il cappuccino difensore dei perseguitati

 

(1620-1695)




Cagliari – La torre di San Pancrazio.



di P. Tarcisio Mascia



Nel maggio 1907 vide la luce a Cagliari, in traduzione italiana e a cura di P. Atanasio da Quartu, la «Storia cronologica di Sardegna (1637-1672)» di P. Giorgio Aleo, frate cappuccino, più noto per i «Successos generales de la Isla y Reyno de Serdeña» (1684). 

Nel Necrologio dei Frati Cappuccini della Provincia di Sardegna (Cagliari, 2011) P. Giorgio è indicato come «lettore di Teologia e Predicatore molto ricercato, stimato e prescelto per molte mansioni da parte del Governo».


Nell'introduzione alla «Storia Cronologica» troviamo alcuni dati biografici di P. Giorgio Aleo. Di lui si legge che era nato a Cagliari nel 1620 e che al battesimo gli era stato imposto il nome di Lussorio e che si era fatto cappuccino nel 1639 ad Iglesias. Qui aveva fatto il suo noviziato, conclusosi con la professione semplice nell'anno successivo. P. Atanasio aggiunge circa i suoi studi e ricerche: 

«Giovine di versatile ingegno, compiti gli studi letterari e scientifici, nei quali notevolmente si distinse, rivolse il suo animo ad applicarsi a quello della storia patria che venne a formare tutta l’occupazione della sua laboriosa vita. Egli percorse in lungo ed in largo tutta quanta l’isola, appaiando il ministero apostolico alle indagini storiche, in quei difficili tempi, in cui le più enormi distanze dell’isola, per deficienza di strade e per francescano dovere, non poteva egli in altro modo superare, se non viaggiando a piedi. Ciò non ostante, lesse tutte le antiche iscrizioni scoperte fino al suo tempo; rovistò tutti gli archivi civici e vescovili, monastici e parrocchiali, tanto dell’isola come della Spagna; visitò, oltre gli esistenti, anche le rovine degli antichi tempii, monasteri, romitaggi e delle vetuste torri, baluardi e castelli, come chiaramente risulta dai suoi pregevoli scritti che attestano la sua prodigiosa operosità.»

La città di Cagliari, come segno di stima e di gratitudine, gli ha dedicato anche una via nel centro cittadino.


Nella sua introduzione alla «Storia cronologica» P. Atanasio racconta il clamoroso assassinio che cambiò bruscamente la vita di P. Giorgio. Era il 21 luglio del 1668 quando a Cagliari, in via Canelles, il Vicerè di Sardegna, marchese di Camarassa D. Emmanuele de los Cobos, fu ucciso per vendetta. A vendicare l’atroce misfatto il governo di Madrid nominava viceré di Sardegna il duca di S. Germano D. Francesco Tuttavilla, “uomo, al dire dello storico Martini, di tempra rigidissima che, con piglio severo, presentavasi in Cagliari, seguito da forte mano di spagniuola soldatesca…” il quale in tal modo sorpassò i termini della punizione, che questa, nanti la coscienza pubblica, parve più stridente dello stesso misfatto. Imperciocché «egli non accordò alcun riguardo al supposto reo né come uomo né come cristiano; profanò quanto di più sacro venera l’amicizia, la parentela ed il giuramento per riuscire nel tradimento a danno dei rei, tre dei quali vennero fucilati nel letto ospitale nel mentre che dormivano. Dopo che furono severamente giustiziati gli esecutori ed i mandanti, credevasi arrivato il termine della carneficina; ma fu allora che principiò la strage dell’innocenti. Bastava lo scostarsi dalla città, qualunque via si prendesse dovea condurre al patibolo. Bastava l’esser congiunto od amico dei delinquenti, oppur congiunto od affine dei congiunti ed amici dei rei, perché dovessero tutti subire la stessa condanna capitale. Insomma seminò il pianto e la vedovanza in cento famiglie; riempì l’aere dei singulti degli orfanelli; pose il lutto ed il terrore in tutta la città.»


A seguito del fatto delittuoso, il 22 dicembre 1671, P. Giorgio, all'età di 50 anni, quando era superiore nel convento di San Benedetto, mentre passava per Porta San Pancrazio (oggi Porta Cristina) fu arrestato, condotto al porto e imbarcato per la Sicilia, dove fu portato al convento dei Cappuccini di Castelvetrano, senza che egli conoscesse i motivi di tale provvedimento e i Superiori la causa della sua improvvisa scomparsa.

Dopo alcuni anni – così recita il Necrologio – sparito definitivamente il Viceré Duca di San Germano, potè rientrare in patria. Sottoposto alla dura prova dell'esilio, egli seppe trovare nella fede e rettitudine del suo operato, la forza di accettare con animo sereno e generoso anche le estreme conseguenze dell'ingiusto provvedimento. Il Viceré giustificava il provvedimento, per aver egli disapprovato l'operato del Governo nella ricerca di vendetta per la misteriosa uccisione del Viceré Camarassa, colpito mentre rientrava alla Reggia da 19 colpi, e del Marchese di Laconi Don Agostino Castelvy. La causa fu quindi l'energia da lui mostrata a favore dei suoi concittadini innocenti, dei quali il Viceré, per semplice sospetto, non cessava di fare strage.                


La «Storia Cronologica» abbraccia un periodo che va dal 1637 al 1672 e si articola in 75 capitoli, che raccontano i principali eventi del suo tempo, fra i quali l'arrivo e la diffusione della peste nell'Isola, la costruzione della nuova cattedrale di Cagliari, l'assassinio del marchese di Laconi e quello del viceré marchese di Camarassa, l'arrivo del nuovo Viceré duca di San Germano e gli arresti conseguenti ai fatti di sangue. Infine il suo stesso esilio. A questo proposio, egli scrive che «il motivo per cui fu esiliato dalla Sardegna era perché sparlava del suo governo e tentò di far nascere popolari sommosse nell’occasione che il regno era in procinto di perdersi.» Al ché così egli replica: «Perdoni, Signor duca, ciò non è vero. La Sardegna non è mai stata in procinto di perdersi; ma è stata sempre e sarà per l’avvenire fedelissima al suo legittimo re. L’autore poi di quest’opera giammai ha fatto un passo che potesse recar pregiudizio all’autorità reale, anzi forma la sua gloria l’essere stato sempre fedele ed affezionato vassallo… Prova poi indicibil consolazione sì per essere stato perseguitato innocente.»


Al suo rientro in Sardegna, P. Giorgio Aleo fu nominato guardiano del Convento Maggiore di Sant'Antonio: nomina nella quale possiamo vedere un tentativo da parte dei suoi confratelli di risarcirlo di quella fama che gli era stata tolta inviandolo in esilio. 

Gli scritti e l'esilio gli conferiscono titolo perché sia considerato uno dei più illustri cappuccini del Seicento sardo.


La diffusione della peste in Sardegna (1652-1656)


Nella «Storia Cronologica» di P. Giorgio Aleo, tra le molte vicende raccontate, quella forse più interessante, è la narrazione della diffusione della peste nell'Isola, avvenuta negli anni 1652-1656.

Sembra che la peste sia arrivata in Sardegna, precisamente ad Alghero, nel 1652. La colpa venne subito addossata al Governatore della città, perché aveva dato via libera a una nave proveniente dalla Catalogna, che aveva scaricato con le merci anche l’infezione.

La peste si diffuse quindi rapidamente da Alghero a tutta l’isola, da Nord a Sud, fino a raggiungere Cagliari, che a seguito di ciò dovette sospendere ogni attività commerciale col mondo esterno.

Anche questa volta l’epidemia ha avuto il suo narratore nella persona del cappuccino P. Giorgio Aleo. Dal racconto che ci ha lasciato, sappiamo che la città, colta all’improvviso, divenne un cimitero. Tra le prime vittime ci fu l’arcivescovo di Cagliari Mons. BERNARDO DE LA CABRA; poi il viceré Don FRANCESCO FERNANDEZ DE CASTRO Conte de Lemos. In effetti l’epidemia fu devastante in tutta l’isola, colpendo tutte le categorie sociali, prescindendo dalla loro appartenenza o dal loro rango sociale. A nulla valsero i provvedimenti per limitare la diffusione del contagio; a nulla valsero apparentemente le funzioni religiose e le devozioni ai santi. La popolazione era impotente davanti all’ecatombe di vittime che la peste mieteva ovunque. E finalmente a nulla valsero le discussioni “filosofiche” nelle quali si cimentavano spesso le persone colte.

Il desiderio di alleviare le sofferenze della gente e la carità cristiana spinsero i religiosi ad aprire le loro chiese ed i conventi per uso di ospedali e lazzaretti, prestando assistenza agli infetti per quasi cinque anni a partire dal maggio del 1652 all’ottobre del 1656, quando il morbo cessò – così si ritenne – grazie all’intercessione del martire Sant’Efisio. In città furono prese tutte le misure atte a limitare il più possibile le conseguenze del morbo. Si organizzarono i Consigli di giunta di Sanità nei diversi rioni. Il numero delle vittime fu tale, che occorse istituire i cimiteri nelle diverse borgate. Scrive FRANCESCO MANCONI in “Castigo de Dios…”: “Spesso i morti erano talmente tanti che i fossori non riuscivano a trasportarli tutti sui carri ed erano costretti a lasciare i cadaveri in decomposizione ai margini delle strade. Addirittura in alcuni casi, per mancanza di tempo e in condizioni di estrema urgenza, i malati venivano sepolti nelle fosse comuni ancora vivi.”

La peste arrivò anche a Sassari. “La cittadinanza – racconta RAFFAELE DA SANTA GIUSTA, citando P. GIORGIO ALEO – restò abbandonata ai ladri, ai becchini, i quali, non dissimili dai monatti manzoniani, ritiravano dalle case morti e ammalati insieme, per evitare il fastidio di tornare a riprenderli, e buttavano gli uni e gli altri ancora vivi nei cisternoni, per non perdere tempo a scavare fosse”. Le autorità cittadine allora chiesero ai cappuccini la loro pietosa assistenza. Il superiore locale, riunita la fraternità nel refettorio, designò se stesso con altri cinque religiosi a cimentarsi con la morte. Genuflessi, chiesero perdono ai loro confratelli; seguirono abbracci, lacrime per la separazione e dal refettorio furono accompagnati all’uscita dagli altri confratelli.

Non tutti però condivisero la decisione del superiore. Infatti i religiosi rimasti fecero osservare la sconvenienza di lasciar la famiglia senza capo, l’indelicatezza del guardiano di essersi da se stesso prescelto ad una missione che, anche se approvata dal superiore, era viziata all’origine: il capitano di una nave deve essere l’ultimo a lasciar la nave in caso di naufragio. Il superiore si arrese a tali considerazioni, tirò a sorte un nome fra gli aspiranti, e benedisse il fortunato drappello che si lanciò imperterrito fra gli orrori della città.

I Cappuccini – scrive P. ATANASIO DA QUARTU S.E. – fecero sgombrare le strade che trovarono barricate, ed asportare i cadaveri non sepolti, raccolsero gli orfani vaganti in cerca dei loro genitori. Si gettavano là dove c’era bisogno della loro presenza.

L’esempio dato dai cappuccini di Sassari venne seguito negli altri conventi. Quello di San Benedetto in Cagliari spalancò la portineria per ricevere gli infetti, ad uso dei quali i religiosi offrirono le loro masserizie, la biancheria ed ogni servizio caritativo. Dal convento di Buoncammino era un continuo sfilare di religiosi diretti parte all’ospedale di Sant’Antonio (sito nell’attuale Via Manno), parte verso dove languivano i condannati alle regie galere.

Furono 62 i religiosi cappuccini che nella peste del 1652-1656 morirono martiri di carità. Di loro rimane anche la lista con la ripartizione città per città.


P. Tarcisio Marco Mascia

Commenti

Post popolari in questo blog

Il Cantico di frate Sole ottocento anni dopo

Padre Atanasio Piras da Quartu Sant’Elena - Ricordo di un grande studioso

Ricordo di Padre Bonaventura Margiani da Mogoro (1930-20005)